Torniamo sul Premio strega giovani 2020 Daniele Mencarelli e pubblichiamo volentieri la lettura che Rocco della Corte scrittore e giornalista, caporedattore di VelletriLife Giornale ci dà del romanzo “Tutto chiede salvezza”
“Tutto chiede salvezza”: un romanzo che fa paura?
Leggendo “Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli ho avuto paura. Mi sono sentito trascinato nelle sensazioni struggenti e indefinite che l’io narrante descrive, non tuttavia nel classico e piaggesco complimento sull’immedesimazione. La verità stronca le mezze misure, nella storia. Ogni giorno è pesante. Il clima sfugge dalle pagine del libro, sguscia fuori dalle righe, dall’impaginato, salta sul naso e si ficca in gola. Con esso la tensione, l’eco angosciante dei momenti in cui pare dover precipitare tutto e invece non precipita nulla nonostante la convinzione ferrea e indissolubile del crollo emotivo. Deparkin, Anafranil, Mutabon. Nomi sempre più cliccati in rete di farmaci sempre più prescritti ai giovani. Mencarelli non ha avuto paura di spogliare il suo protagonista, non ha invocato alcuna “Madonnina”. Ha soltanto ricollocato l’arte e la parola al posto giusto, in un contorno di realtà strabordante e dirompente che non sfuma. Mario, Pino, Rossana, Cimaroli. Personaggi troppo vivi per essere un’invenzione? Ogni giorno è una pagina dell’agenda, non si può passare a quella dopo. Una settimana vale il tempo di una settimana, anche se la frenesia si impossessa della lettura per la lirica scorrevolezza dello stile. Il Farganasse e l’insonnia sono due poli che coesistono e si accordano per affacciarsi al momento giusto nella mente. La vita è cruda, triste, altalenante. Proprio come gli stati d’animo. Nessuno sa essere triste come quel ragazzo del ’94, nessuno sa essere altrettanto pienamente felice. È proprio la pienezza che fa paura. La teoria del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto ci ha rovinati, perché il “mezzo” non è mediazione ma strumento, quello stesso strumento che abbiamo voglia di usare, in pillole, per sfuggire alla completezza del nostro sentore interno. L’Anafranil è vecchio, è un triciclico. Oggi i ricaptatori selettivi della serotonina fanno miracoli. Ad un certo punto, però, ecco il “pistolotto” classico del compagno di stanza Mario che esorta a metterci del proprio nella ripresa, a non affidarsi solo alla medicina. Ed è un bel casino: posso io dare le chiavi della salvezza che chiedo alla stessa mente che mi sta affondando? La risposta è una non risposta. I dubbi della medicina e della psichiatria basta accennarli per certificarli.
“Tutto chiede salvezza”, poi, non cede al trionfalismo buffonesco di una patria che ha talmente voglia di buone notizie che se le inventa quando non ci sono. Mencarelli non ti dice che ce la puoi fare o che ce la farai, è onesto e accantona l’ipocrisia. Ce la fai nella misura in cui ti allei all’altro polo. Come il Farganasse e l’insonnia. Se l’una si schianta nell’altro, l’equilibrio (“mentale”?) non si ottiene. Devi decidere tu, una volta uscito dal TSO letterario, se dare all’Anafranil un peso specifico o un peso commisurato al brutto, che pure c’è. Illudersi è bello per un quarto d’ora, soprattutto se sei realista.
Il romanzo di Mencarelli è un trattamento letterario obbligatorio perché ti obbliga a scrollarti di dosso, mentre con foga divori le righe, il buonismo stereotipato appiccicato ai discorsi di chi non può capire e finge di aver compreso. Quelli di chi ti dice che ce la farai senza avere contezza di cosa dovresti fare. Oggi viviamo un abuso di libertà lessicale. Perché tutti hanno la certezza di essere affetti da ansia e panico dalla mattina alla sera e nessuno, con due linee di febbre, crede di avere un aneurisma cerebrale? Perché la stanchezza è colpa dello stress e non di un calo emoglobinico da pancitopenia? Sdoganare certi problemi ha rappresentato la loro minimizzazione. E non è corretto. L’ironia è una cosa seria e non può stare sulla bocca di tutti, così come non possono starci i nomi delle malattie. Per fortuna non tutti hanno bisogno di ricaptare la propria serotonina. Volare con le parole in una società che non sa parlare è l’ultimo dei paradossi. Proprio come i bicchieri mezzi pieni e mezzi vuoti.